ENDURANCE. L’INCREDIBILE VIAGGIO DI SHACKLETON AL POLO SUD di Alfred Lansing
<<L’ordine di abbandonare la nave fu impartito alle cinque pomeridiane. Per la maggior parte degli uomini, comunque, non sarebbe stato neppure necessario: sapevano che la nave era condannata e che ogni sforzo per salvarla sarebbe stato ormai inutile. Non ci furono segni esteriori di paura o di apprensione. Avevano lottato senza posa per tre giorni e avevano perduto. Accettarono il loro destino quasi apaticamente. Erano troppo stanchi per preoccuparsene>>.
L'inizio del libro di Lansing parte dalla morte dell'Endurance, la nave che avrebbe dovuto accompagnare il Capitano Ernest Shackleton e i 27 uomini di equipaggio sino alle rive del continente Antartico per l'Imperiale Spedizione Antartica; meta mai raggiunta della spedizione: la traversata da ovest a est dell'Antartico. Il successivo tentativo avverrà con ben altri mezzi solo quarant'anni più tardi, nel 1957. L'Endurance mollò gli ormeggi dell'Est India Docks di Londra il 1° agosto 1914, mentre in Europa la Germania dichiarava guerra alla Francia. Lasciandosi alle spalle la Grande Guerra, il 5 novembre 1914 la nave giungeva alla base baleniera di Grytviken sull'isola della Georgia Australe, nell'estremo sud dell'oceano Atlantico pronta a compiere il grande balzo verso il continente Antartico. Quell'anno le condizioni dei ghiacci del Mare di Weddel furono le peggiori che i comandanti di baleniere norvegesi avessero mai visto; il Capitano Shackleton fece ugualmente mollare gli ormeggi il 5 dicembre facendo rotta verso il mare di Weddel. Quasi subito la nave, creata per muoversi con sicurezza tra gli iceberg, fu rallentata dai ghiacci fino rimanere totalmente imprigionata nella banchisa, andando alla deriva; fino al 21 novembre 1915. Alle ore 16.50 di quell giorno l'Endurance, stritolato dall'immensa pressione del ghiaccio, affondò dopo aver <<sostenuto la lotta più coraggiosa che mai una nave abbia dovuto sostenere contro la banchisa implacabile>>.
Da questo momento, inizierà la solitaria avventura di un gruppo di uomini, che dovranno affrontare il freddo e la fame, lo scoramento e la sfiducia, accompagnandosi l'un l'altro per resistere agli attacchi di una sorte estremamente avversa. Il Capitano Shackleton, vigilerà sull'incolumità dei suoi uomini sotto il peso della responsabilità di doverli portare tutti in salvo <<…incapace di dimenticare, anche per un istante, la sua posizione e la responsabilità che comportava. Gli altri potevano riposare o riuscire a svagarsi adempiendo i lavori del momento. Shackleton non si concedeva né riposo, né evasione. La responsabilità era sua per intero e non si poteva essere in sua presenza senza avvertirlo>>. Giunti all'estremo delle riserve alimentari, dovettero abbattere la muta di cani che li accompagnava; un ritorno alla vita primitiva nel ghiaccio e nel bagnato, alla deriva sui lastroni di ghiaccio, nelle mani di una natura immensa e indifferente. Trascorsi 497 giorni interminabili alla deriva sulla banchisa, spinti dal vento e dalle bufere del Polo Sud, il comandante e i suoi marinai raggiungeranno, con le scialuppe salvate dal naufragio, un inospitale e desolato lembo di terra: una spiaggia dell'Isola Elefante: << … molti di essi si muovevano barcollando sulla spiaggia senza uno scopo né una meta; alcuni raccoglievano una manciata di ghiaia; altri si stendevano per meglio assaporare la sublime solidità sotto il peso del corpo>>. Tuttavia la salvezza non era ancora giunta. L'isola elefante era lontana dalle rotte delle navi baleniere: occorreva muoversi nuovamente, cercando di raggiungere la più vicina terra abitata. Infatti, Shackleton, dopo aver scritto il proprio testamento, salperà dall'isola Elefante con 5 uomini, a bordo della Caird, una scialuppa di soli sei metri e mezzo, facendo vela verso l'isola della Georgia Australe, la base di partenza della spedizione. Il minuscolo battello, affronterà, nel 1915, con qualche carta nautica, un sestante e pochi strumenti di fortuna, un viaggio di oltre 650 miglia marine (quasi 1300 chilometri); lunghe settimane di viaggio nel mare più burrascoso del globo, mentre i ventidue uomini di equipaggio attenderanno il ritorno del Comandante con i soccorsi. Verranno tutti tratti in salvo.
Il libro “Endurance”, tratto dalla lettura del diario personale che ciascun membro dell'equipaggio tenne in quei mesi, è una delle più belle avventure mai raccontate: bellissimi i ritratti dei singoli che interagiscono tra loro cooperando alla salvezza di tutto il gruppo in un epico ritratto corale, enorme la natura che li circonda e che indifferente si frappone tra questi uomini sperduti e il mondo che li ha dati per scomparsi nei ghiacci del Polo. I sentimenti e i pensieri di quegli uomini attraversano quasi un intero secolo e raggiungono il lettore al cuore, grondanti di voglia di vivere: sarà difficile alzare il naso dalle pagine sporche e affumicate di grasso di foca.
<<Mathias Andersen era il sovrintendente della stazione di Stromness. Non aveva mai conosciuto Shackleton, ma, come tutti nell'isola della Georgia Australe, sapeva che l'endurance era salpata da lì nel 1914 e, senza dubbio, era affondata con tutti i suoi uomini nel mare di Weddel. In quel preciso istante, comunque, i suoi pensieri erano ben lungi da Shackleton e dalla sfortunata Imperiale Spedizione Transantartica. Aveva alle spalle una dura giornata di lavoro iniziata alle 7 del mattino; erano le quattro del pomeriggio ed era piuttosto stanco. Se ne stava sul dock a controllare una squadra di uomini che scaricavano delle provviste da una imbarcazione. Proprio allora udì un grido e alzò lo sguardo. Due ragazzini di una decina d'anni correvano a gambe levate, non per gioco, ma spaventati. Alle loro spalle Andersen scorse le figure di tre uomini che camminavano lentamente, e quasi trascinandosi verso di lui. Andersen non poté non rimanere sbigottito. Una cosa era certa: quegli uomini erano degli stranieri, ma quello che tanto lo sorprendeva era il fatto che non sopraggiungevano dai docks, dove potevano essere giunti a sua insaputa a bordo di qualche nave, ma dall'entroterra, dalle montagne. Come quelli si avvicinavano, vide che avevano lunghe barbe e i loro volti erano quasi per intero neri, eccetto gli occhi, i capelli lunghi come quelli di una donna giungevano all'altezza delle spalle e per qualche ragione a lui ignota erano arruffati e sporchi. Anche i loro abiti erano strani. Non indossavano i maglioni e gli stivali portati abitualmente dai marinai, ma giacconi di maglia o di pelle, anche se difficili da riconoscere perché ridotti a brandelli. … l'uomo al centro parlò in inglese: -Potreste condurci, per cortesia, da Anton Andersen? – gli chiese con un filo di voce. Il sovrintendente scosse il capo. Anton Andersen, spiegò, non si trovava più a Stromness. Era stato sostituito dal direttore stabile della fabbrica, Thoralf Sorlle. L'inglese sembrò contento. – Bene -, disse – Conosco bene Sorlle – … Il sovrintendente busso alla porta del direttore e, un attimo dopo, Sorlle stesso apriva. Era in maniche di camicia e aveva sempre i baffoni a manubrio. Quando scorse i tre uomini indietreggio di un passo e un espressione incredula apparve sul suo viso. Rimase a lungo in silenzio prima di mormorare: -Ma chi diavolo siete? – L'uomo al centro fece un passo avanti. – Il mio nome e Shackleton – rispose con voce sommessa. Di nuovo ci fu un grande silenzio; … Sorlle si voltò e pianse>>
La prima volta che ho letto il libro mi sono commosso anch'io. Assolutamente consigliato, imperdibile.
Recensione di Gianleo Di Seclì