AMERICAN VERTIGO di Bernard-Henri Lévy
Quando Alexis de Tocqueville, un aristocratico francese, dopo un viaggio lungo 9 mesi scrisse negli anni ’30 dell’Ottocento La Democrazia in America, riuscì ad anticipare numerosi fatti che si sarebbero successivamente verificati come, ad esempio, il dibattito sull’abolizione della schiavitù e l’emergere degli Stati Uniti e della Russia come le due superpotenze mondiali. Era però principalmente un’analisi della democrazia rappresentativa repubblicana e dei motivi per cui era attecchita molto bene in terra americana mentre era fallita in molti altri paesi. La democrazia in America, secondo Tocqueville, aveva però anche delle potenziali debolezze: la tirannia della maggioranza e l’assenza di libertà intellettuale, che gli sembrò potesse degradare l’amministrazione e favorire il crollo della politica pubblica di assistenza ai più deboli, dell’educazione e delle lettere. Il libro fu un immediato successo sui due lati dell’Atlantico e nel ventesimo secolo diventò un classico della politica, della sociologia e della storia.
170 Anni dopo Bernard-Henri Lévy si ripropone di seguire le orme del suo compatriota e dopo un altrettanto lungo viaggio pubblica American Vertigo (Rizzoli, pp. 405, € 19,00). Poco conosciuto in Italia, ma molto noto in Francia, Lévy fu il fondatore della scuola dei Nuovi filosofi (Nouveaux Philosophes), un gruppo di giovani intellettuali che rifiutavano le dottrine comuniste e socialiste che animavano i tumulti del maggio francese muovendo a queste un’agguerrita ed inflessibile critica morale, ma che allo stesso tempo rigettavano l’ideologia capitalista.
BHL, come è noto in patria, nel corso del suo viaggio visita penitenziari, chiese, comunità musulmane e amish, incontra politici e pensatori, miliardari e gente comune. Sottolinea le contraddizioni di quella che è diventata la principale superpotenza mondiale e il gendarme dell’Occidente, spiegandone le tensioni sociali e il sistema giudiziario. Si sofferma sui tratti peculiari del carattere americano, come lo spirito religioso e il patriottismo, e sulla ricchezza culturale e sulla capacità di immaginare il futuro che legittimano il ruolo guida degli Stati Uniti, senza però nascondere il rischio del ritorno alle ideologie e della tirannia della maggioranza.
Ma il punto fondamentale del libro è la tesi finale dell’autore, cioè che l’America è sempre stata, è e sarà astratta, in quanto “proiezione mentale forgiata da uomini di origini diverse che avevano in comune solo la condivisione non di una memoria, ma di un desiderio e di un’idea”. Per l’autore è una nazione senza sostanza, senza essenza e sostegno, ma molto più disincantata di quanto si pensi di solito. “Una paradossale entità autoreferenziale, il cui legame consiste unicamente nella ripetizione infinita ma sonora del suo nome quasi comune”. Come Bill Clinton dichiarava nel suo discorso inaugurale del 1993: “tocca ad ogni generazione di americani dire cos’è l’America”.
Ma tutto questo non va intesa in un senso solamente negativo, infatti per l’autore “nel fatto di dirsi e volersi americani ci sono una dolcezza, una leggerezza, un elemento di civiltà che fanno sì che questo sia uno dei paesi in cui, nonostante tutto, si respira meglio. L’America è un’idea che libera”.
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